In questo ultimo periodo, si è tanto parlato di corpi su web: corpi accettabili, inaccettabili, body positivity, persino skin positivity; “normalize” normal bodies ma commentarli sempre e comunque, in ogni occasione possibile. Dalla modella ventitreenne di Gucci, Armine Harutyunyan, scelta da Alessandro Michele che ha riscosso tantissime critiche, di recente, nonostante il rapporto con il direttore creativo sia attivo dal 2019.
I commenti sotto i post del suo profilo si sono polarizzati su insulti sul suo aspetto fisico, critiche per la scelta di farla sfilare, perché una così, con quelle sopracciglia, quel naso, quel taglio del viso, sulle passerelle non ci dovrebbe proprio stare.
Passando poi per Giulia De Lellis, famosa influencer che conta ormai quasi 5 milioni di followers, che ha deciso di andare al 77esimo festival di Venezia sfoggiando – a detta di alcuni giornali – la sua acne per veicolare un messaggio: quello della skin positivity.
Messaggio che ha diviso l’opinione pubblica in chi si è sentito accolto e abbracciato – perché l’acne oltre ad essere un problema molto diffuso è anche vissuto in maniera molto emotivamente carica da chi ne soffre, provocando vergogna, senso di inadeguatezza -, e in chi invece ha aspramente criticato la scelta non tanto della influencer, quanto dei giornali, nel farla diventare paladina dell’ennesimo messaggio di cui, forse, non si sentiva il bisogno.
A partire da Armine Harutyunyan, modella di Gucci. Una così, con quelle sopracciglia, quel naso, quel taglio del viso
Beatrice Valli, influencer neo-mamma del suo terzo figlio che non si nasconde nel mostrare il suo corpo, anch’esso protagonista di non pochi titoli di giornali, che la ritraggono come la donna che ha fatto ciò che nessuno ha avuto il coraggio di fare prima: mostrarsi, per come si è, nonostante il non essere esattamente come ci si aspetterebbe.
Infine Elly Schlein – vicepresidente della regione Emilia Romagna – messa in copertina da L’Espresso e offesa pesantemente da Gervasoni. Se il commento sessista da parte del docente di storia contemporanea dell’Università degli Studi del Molise ha suscitato non poche polemiche, c’è anche chi prende le sue parti: “va di moda così, adesso”, gli rispondono.
Quello che colpisce particolarmente è il dibattito che si è venuto a creare intorno: chi dice che va bene così, che Alessandro Michele ha fatto bene a scegliere una modella così diversa dai soliti volti a cui siamo stati abituati e chi invece non accetta che una modella così possa sfilare sulle passerelle per uno dei brand più importanti e conosciuti nel mondo. Chi ammira chi si mostra nonostante l’acne su un red carpet, come se ci fosse alternativa, come se chi ha l’acne dovesse nascondersi, ma ne vogliamo comunque premiare il coraggio e il tentativo di normalizzare il fenomeno, con il risultato di sottolineare come di normale non ci sia nulla.
Perché, però, un corpo fa così tanto clamore? Perché siamo così portati a commentarlo, farlo diventare notiziabile, rendendolo oggetto di comunicazione e giudizio da sconosciuti verso altri sconosciuti?
La cosa che ci insegnano a comunicazione, dal giorno uno, è che per parlare di comunicazione serve un emittente, un destinatario, un messaggio e un codice che ci consenta di comprendere il messaggio in relazione all’emittente e al destinatario. Poi c’è un fattore che viene chiamato “rumore”, che ha il potere di contrastare l’efficacia del processo comunicativo.
Il corpo secondo questo paradigma è stato per tanto tempo uno strumento – con il quale io posso comunicare al mondo chi sono, quanto sono potente e quanto valgo; basti pensare al modello ariano, che comunica e stabilisce supremazia rispetto alle altre etnie, o al modello WASP – White Anglo-Saxon Protestant -, modello definito da caratteristiche fisiche ben precise, oltre che religiose ed etniche.
Perché un corpo fa così tanto clamore? Perché siamo così portati a renderlo oggetto di comunicazione?
Il corpo è utilizzato come strumento per veicolare un messaggio, ad un destinatario ben preciso, limitando il rumore che ne può derivare il più possibile. Come?
Attuando processi di omologazione: tutti così, accettabili solo se; vieni anche tu a far parte di questo mondo, ma uniformati! Non vai bene tu in quanto tu, ma tu in quanto come altri, con dei tratti che gli altri conoscono e ri-conoscono. Tutto il contrario di inclusione e accettazione del diverso e delle sfumature insomma. Tutto bianco o nero. In questo caso decisamente bianco.
Quello che però la comunicazione ci insegna, sempre dal giorno uno, forse addirittura dal giorno zero perché lo impariamo tutti sulla nostra pelle dalla nascita, è che affinché un processo comunicativo possa avvenire, c’è bisogno di un codice.
Un codice che consenta la decodifica e che quindi consenta di comprendere il messaggio: provate ad immaginarvi una conversazione con una persona che non parla la vostra lingua. Il codice linguistico non funziona, quindi potremmo ricorrere a quello dei segni, sperando di poterci far capire e di comprendere l’altro. È però pur sempre un codice. Condiviso.
Nel caso Gucci, la sensazione è che ci sia stato un cambio di codice che ha colto alcuni alla sprovvista.
Ma come, una così che sfila per Gucci?
Una così come?
Una che non fa parte dei codici a cui siamo abituati, sì.
Ma di chi sono questi codici? Perché stabiliscono quello e non quell’altro? Chi è che stabilisce cosa va bene e cosa no?
Esatto. Noi.
La sensazione è che ci sia stato un cambio di codice che ha colto alcuni alla sprovvista
I paradigmi con cui ci confrontiamo ogni giorno non sono altro che il frutto di vecchie consuetudini perpetrate nel tempo, perché efficaci a livello di decodifica.
È normale quindi trovarsi di fronte a chi non capisce, a chi addirittura si arrabbia, perché è così che si reagisce di fronte ad un pezzo che ci manca o a qualcosa che non capiamo.
Quello che è altresì certo, tuttavia, è che siamo di fronte ad uno smantellamento dei codici, per riscriverne di nuovi. Abbiamo bisogno che ci stiano più addosso, che ci rappresentino di più. Che siano più adatti a noi e, soprattutto, fatti per noi.
Perché i paradigmi e le consuetudini devono essere delle semplificazioni per comprendere la realtà che ci circonda, non delle gabbie dentro le quali incasellare il mondo in definizioni, in binomi giusto/sbagliato, va bene/non va bene, che bloccano l’evoluzione e il cambiamento, che è la cosa più naturale che esista.