La storia rivoluzionaria del graphic design a Cuba
Com'è cambiata la grafica in un paese che non è mai stato come tutti gli altri
Il visual design a Cuba ha una storia particolare. La grafica e la comunicazione incrociano la storia tumultuosa dell’isola, sia prima che dopo la rivoluzione castrista. È un paese che ha scelto di utilizzare il linguaggio grafico come parte centrale delle sue battaglie identitarie e politiche.
In principio, negli anni ’20 e ’30, le comunicazioni visive cubane erano fortemente influenzate dall’egemonia USA. I poster e i manifesti del periodo erano figli dell’Art Nouveau e delle pubblicità americane, così come espressamente richiesto dal partito al potere. In generale Cuba cercava ancora la sua identità culturale nelle sue radici europee e africane: il paesaggio, la fauna e le tradizioni dell’isola, così come i suoi contadini, emergevano spesso nei poster del tempo.
Dopo la rivoluzione cambiò tutto. Il regime utilizzò la grafica come mezzo di propaganda, e lo fece con una costanza e una decisione che permearono tutti gli ambiti della produzione culturale. Castro impiegò designer ed esperti di comunicazione per promuovere un nuovo senso di identità tra i cubani. Coinvolse molti artisti e creativi, a cui chiese di progettare manifesti d’avanguardia in atelier finanziati direttamente dallo stato.
Castro impiegò designer e creativi per promuovere un nuovo senso di identità tra i cubani
In quel periodo nacquero poster che promuovevano campagne sanitarie e educative, commemorazioni storiche, concerti e spettacoli. I manifesti utilizzavano grafiche nuove e sorprendenti, particolarmente originali per gli standard dell’epoca. Alla fine degli anni ’60 molti designer tra cui Alfredo Rostgaard e Felix Beltran diventarono artisti di fama internazionale.
La grande maggioranza delle opere prodotte a Cuba in quel periodo era richiesta da tre agenzie: Editora Politica (responsabile di libri, opuscoli e cartelloni); OSPAAAL (l’Organizzazione in Solidarietà con i Popoli d’Africa, Asia e America Latina) e l’Istituto del Cinema Cubano (con il quale collaborarono alcuni dei maggiori creativi cubani, realizzando centinaia di locandine di film). Gli altri principali committenti erano FMC (la Federazione delle donne cubane), CNT (la Confederazione nazionale dei lavoratori) e OCLAE (l’Associazione degli studenti latinoamericani). Infine piccoli studi fornivano servizi per i clienti commerciali.
OSPAAAL, in particolare, era stata istituita nel 1966 con l’obiettivo di promuovere la cooperazione tra i paesi socialisti e i movimenti di liberazione. Come parte della missione, il team aveva creato una rivista illustrata – Tricontinental – con articoli sui movimenti rivoluzionari di tutto il mondo. Le notizie erano pubblicate in quattro lingue: spagnolo, inglese, francese e italiano. La tiratura era di 50.000 copie. Le pagine erano arricchite da illustrazioni dei designer del partito.
Sulle pagine della rivista i creativi ricorrevano ad uno stile colorato, pop ed espressivo. Venivano utilizzati colori piatti a blocchi, visto che la stampa avveniva in serigrafia (la tecnica offset sarebbe arrivata dall’Unione Sovietica solo qualche anno dopo).
Considerata la platea internazionale di lettori, che parlava lingue diverse, la pubblicazione utilizzava spesso metafore visive. Le grafiche dovevano essere facilmente comprensibili anche da un pubblico non istruito. Quelle contro il nemico comune – gli Stati Uniti d’America – erano basate su figure riconoscibili come lo zio Sam o il logo della CIA.
Considerato il pubblico internazionale, che parlava lingue diverse, la pubblicazione ricorreva spesso a metafore visive
Uno dei principali designer attivi sulle pagine di Tricontinental fu Felix René Mederos. Autodidatta, iniziò a lavorare in una tipografia dell’Avana nel 1944. Nel 1959 fu nominato chief designer per la stazione televisiva nazionale. Nel 1964, all’inizio della nuova ondata di grafica cubana, Mederos iniziò a creare i suoi primi poster. Il suo stile con superfici luminose, motivi naturali e la forte ideologia politica definì un modello che influenzò un’intera generazione di grafici nel mondo.
Nel 1969 venne incaricato dal governo di recarsi in Vietnam per dipingere scene di guerra. Continuò per tutta la sua carriera a disegnare locandine e manifesti su questioni nazionali e internazionali. Il suo ultimo grande progetto fu una serie di 14 pannelli dedicati alla figura di Che Guevara.
Tra i collaboratori della rivista c’era anche una creativa americana, Jane Norling. Di fatto era l’unica artista straniera del collettivo. Aveva illustrato e pubblicato un’edizione nordamericana di Tricontinental, all’inizio degli anni ’70, distribuendola clandestinamente in California. Nel 1972 era stata invitata a L’Avana per la realizzazione di un poster di solidarietà con il popolo di Porto Rico.
Furono molti i designer che collaborarono alle pubblicazioni della rivista, facendosi notare per la creatività dei soggetti e dei trattamenti. Altri furono, ad esempio, Elena Serrano, Olivio Martínez Viera e Gladys Acosta Ávila.
Il comitato di OSPAAAL ha di recente sospeso le pubblicazioni di Tricontinental, dopo più di 50 anni di attività. Ultimamente la produzione di poster si era ridotta molto, soprattutto per mancanza di risorse economiche. Negli ultimi anni la pubblicazione aveva seguito da vicino le grandi battaglie del tempo: i movimenti per i diritti dei neri e delle donne, la discriminazione delle minoranze, le guerre in Africa e in Medio Oriente.
Nel 2019 la House of Illustration di Londra ha ospitato una mostra dedicata a 33 creativi attivi a Cuba tra il 1965-1992, esponendo oltre 100 poster e manifesti. Secondo Olivia Ahmad, la curatrice della mostra, le grafiche risultano sorprendenti soprattutto per la giocosità e il senso dell’umorismo. Anche considerando che si trattava di opere di propaganda, per lo più. “Non sono ritratti seri o formali. Usavano colori vivaci, ispirati alla pop art”.
In un manifesto del 1969 Rostgaard raffigura ad esempio Che Guevara attraversato da luci arcobaleno. In uno dei suoi poster più celebri, Alberto Blanco González aveva collocato Mandela su uno sfondo arancione brillante, un colore da pubblicità di detersivi. Lo slogan recitava “simbolo della lotta contro l’apartheid”.
“Invece della propaganda tradizionale, che impone i messaggi in modo unidirezionale, i designer cercavano di avvicinarsi ai loro interlocutori”, ha spiegato Ahmad.
“Non ti dicevano cosa fare o pensare. Facevano appello alla tua ironia e alle tue emozioni”.