Danilo Ausiello
CoFounder - Panama

La prima creativa di sempre

Artemisia Gentileschi, che fu artista e pioniera

Quando Artemisia Gentileschi decise di diventare un’autrice nessuna donna lo aveva fatto prima. Cominciò a dipingere nel laboratorio del padre, pittore pisano del 1600, mentre badava alla casa e accudiva i fratelli. In breve emerse un talento pazzesco che gli uomini non poterono ignorare mandandola in cucina, che la portò a incontrare artisti come Caravaggio e Buonarroti, comunque tutti maschi. 

A 17 anni la giovane realizzò “Susanna e i Vecchioni”, in un certo senso il primo manifesto contro il catcalling della storia (le strade sempre piene di susanne e vecchioni). Nel dipinto la ragazza si protegge da questa nuvolona di mascolinità tossica sopra di lei, scacciandola con le mani. Era quasi un presagio. 

Susanna e i Vecchioni (1610) - Collez. von Schönborn, Pommersfelden

Nel 1611 Gentileschi fu vittima di uno stupro, violentata da un amico del padre, artista pure lui. La storia fu uno scandalo fiorentino da cui uscì compromessa lei più di lui (guarda un po’). La donna raccontò l’episodio con orrore e uno schifo di cui conserviamo le parole esatte:

«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto,

 

mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni […] mi mise una mano con un fazzoletto alla gola acciò non gridassi […]

 

E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne […]».

Nel quadro che dipinse anni dopo, in cui Giuditta stacca la testa ad Oloferne, molti videro una proiezione della sua rabbia per quella violenza. Il coltello, la presa feroce, il sangue che sgorga. Dell’opera Gentileschi realizzò diverse versioni: la prima è al Museo Capodimonte a Napoli e vale da sola il viaggio, come le tre stelle nelle guide Michelin.

Giuditta che decapita Oloferne (1613) - Capodimonte, Napoli

L’artista realizzò anche un seguito del quadro (uno spin-off, diciamo), in cui le due donne scappano insieme dopo lo scalpo. È finalmente la rappresentazione di un mondo senza maschi, con l’ancella che tiene la testa nel cesto come se niente fosse, come fosse il bucato.

Giuditta con la sua ancella (1618-1619) - Palazzo Pitti, Firenze

Il suo nome non compare granché nei testi dei suoi contemporanei, se non in calce a quello del padre (altra cosa che accade alle donne: sempre figlie di, mogli di, mamme di).

Quelli che la notarono però ne parlarono parecchio, dedicandole pagine incredule. Filippo Baldinucci, storico del ‘600, la definì «valente pittrice come mai altra femina», non che ce ne fossero molte in giro.

Forse l’interpretazione femminista delle sue opere ha portato a sottovalutarne la qualità artistica, come a dire che è diventata un simbolo ma dimentichiamo che era un fenomeno, un’artista coraggiosa e dotatissima.

E in più un’artista-donna nel 1600, che è come dipingere con le mani legate dietro la schiena mentre ti coprono gli occhi e ti tirano su il vestito. Mettiamo questa donna su una banconota.