© Giovanni Gastaldi × Canàl

Erano 400 gli immigrati portoghesi che un giorno del 1879 arrivarono ​​al porto di Honolulu a bordo della nave “Ravenscrag da Madeira”. Uno dei passeggeri era il musicista Joao Fernandes: una volta arrivato in porto, in preda all’entusiasmo, iniziò a strimpellare uno strumento che dalle sue parti chiamavano la “braguinha”. Aveva una forma strana, piccola e facile da impugnare. Qualcuno lo chiamava anche il “machete”.

Lo strumento si diffuse rapidamente sull’isola. Aveva la sagoma di una nocciolina, maneggevole, con sole 4 corde. Era realizzato principalmente in legno e ricordava una chitarra acustica, ma più piccola. Il suono faceva pensare ad un insetto che saltellava sulle corde e quindi gli abitanti decisero di chiamarlo così, in lingua locale: “oo-ku-lay-lay”. Insetto saltellante.

Negli anni successivi l’ukulele conquistò il pubblico delle Hawaii: all’inizio del secolo il suo suono era onnipresente sulle spiagge e nei locali dell’isola. Uno dei suoi grandi appassionati fu il re David Kalakaua, sovrano delle Hawaii. Abile chitarrista e musicista, decise di farne un simbolo della cultura locale. 

In quel periodo il re mirava a difendere l’identità nazionale dall’azione dei missionari, che convertivano al cristianesimo le popolazioni autoctone considerate “selvagge” o “incivili”. Il re decise di promuovere l’ukulele come strumento autenticamente hawaiano, introducendolo nelle performance pubbliche di hula, la principale danza regionale.

Agli abitanti il suono fece pensare ad un insetto che saltellava sulle corde. Decisero di chiamarlo così: “oo-ku-lay-lay”. Insetto saltellante

La maggiore società produttrice di ukulele fu quella di Manuel Nunes, ex coltivatore di zucchero portoghese. Nunes si era trasferito ad Honolulu insieme ai fratelli per darsi alla lavorazione del legno, specializzandosi come liutaio. In breve il marchio Nunes divenne il migliore nel settore. Una reputazione che l’artigiano trasferì ai figli, che rilevarono l’attività, e in seguito trasmessa di generazione in generazione.

Lo strumento arrivò in molti Paesi in tutto il mondo. Lo sviluppo di diversi tipi di ukulele, realizzati con materiali e caratteristiche varie, lo rese adattabile a contesti musicali diversi. In Polinesia divenne lo strumento preferito della popolazione indigena; in Giappone venne introdotto all’inizio del 1900, insieme alla musica jazz (durante la guerra venne bandito come “creazione occidentale”, per poi essere reintegrato dopo la fine delle ostilità). Il Canada fu uno dei primi paesi a introdurre l’insegnamento dell’ukulele direttamente nelle scuole. Ma lo strumento sfondò soprattutto negli Usa.

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L’Esposizione Internazionale del Pacifico, tenutasi a Panama nel 1900, attirò oltre 17 milioni di visitatori, principalmente dagli Stati Uniti. Una delle grandi attrazioni fu proprio il padiglione delle Hawaii, che intratteneva il pubblico con danze hula e concerti di ukulele. Un giornalista del Connecticut descrisse per i suoi concittadini “le melodie meravigliosamente dolci di questi suonatori, che non possono essere dimenticate una volta ascoltate”.

Negli anni 20 lo strumento divenne un business formidabile negli States. I magazzini Sears Roebuck e altri rivenditori offrivano lo strumento per un paio di dollari, o addirittura gratuitamente, se abbinate all’acquisto di corsi e lezioni. Nello stesso periodo cantautori come Tin Pan Alley lanciarono il trend delle canzoni “hawaiane”, con successi come “On the Beach at Waikiki”.

In Polinesia divenne lo strumento preferito della popolazione indigena. In Giappone venne introdotto insieme alla musica jazz

Al successo dell’ukulele contribuì paradossalmente anche la Grande Depressione. Negli anni della crisi il costo di pianoforti e fisarmoniche aumentò improvvisamente. Molte famiglie ripiegarono su strumenti più accessibili, come appunto l’ukulele, rendendolo particolarmente popolare nella metà degli anni ’30. Presto sul mercato arrivarono grandi quantità di versioni economiche, realizzate in plastica o truciolato.

I negozi di musica proponevano libri di metodo come “Beach Boy Method Hawaiian Style”, che diffusero definitivamente il fascino delle Hawaii come paradiso esotico. Per quattro decenni, i suoni delle Hawaii furono associati inevitabilmente alle note “pizzicate” dell’ukulele.

Anche la televisione rappresentò una vetrina promozionale importante. Artisti come Bing Crosby ed Elvis Presley apparvero nei programmi dell’epoca imbracciando i loro ukulele (“Blue Hawaii” divenne uno dei grandi successi commerciali di Elvis). Per un po’ sembrò che l’ukulele avesse tutto: una reputazione da strumento sofisticato e il fascino dell’oggetto del popolo. Ma non durò per molto.

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Quando le radio commerciali iniziarono a diffondere la musica rock negli anni ’50, con le sue sonorità più aggressive e ruvide, istantaneamente l’ukulele perse molto del suo fascino. Le note sembravano, tutto ad un tratto, troppo lievi e sdolcinate. Agli occhi dei musicisti più giovani appariva come un giocattolo, rispetto alla poderosa chitarra elettrica. “Se un bambino ha un ukulele in mano, non si metterà mai nei guai”, avrebbe detto un popolare conduttore durante una trasmissione radiofonica, apparentemente ignaro di aver messo il dito sulla debolezza fatale dello strumento.

L’ukulele contribuì ad alimentare il fascino delle Hawaii come paradiso esotico

L’ukulele stava per cedere il passo ad un tempo nuovo, fatto di ritmi e mode diverse. Il 9 febbraio del 1964 milioni di spettatori di un programma televisivo americano assistettero al passaggio di consegne tra un’attempata musicista vestita d’oro che strimpellava l’ukulele e quattro emergenti musicisti di Liverpool.

Era l’inizio dell’epoca-Beatles e della stagione del pop-rock: l’ukulele sarebbe stato relegato a strumento eccentrico e marginale. I Beatles in realtà amarono molto l’ukulele in privato, ma lo utilizzarono poco nei loro album e ancora meno dal vivo. Il piccolo strumento venne dimenticato dal pubblico internazionale per almeno un paio di decenni.

Quando arrivò la musica rock, con le sue sonorità aggressive e ruvide, l’ukulele perse immediatamente molto del suo fascino

Solo a partire dagli anni ’80 alcuni musicisti pop reitrondussero l’ukulele nei loro dischi, come elemento di autenticità e intimità. La cosa riguardò soprattutto i giovani artisti delle Hawaii, che in precedenza si erano innamorati del rock quanto i musicisti all’estero. Furono loro ad esplorare l’ukulele in un modo nuovo, incrociando folk locale e pop internazionale. In quel periodo vennero rilanciati grandi festival dedicati allo strumento, come quelli di Oahu, Maui e Big Island.

Forse il brano più famoso della nuova ondata di ukulele è “Over the Rainbow / What a Wonderful World” di Israel Kamakawiwo’ole, utilizzato in molti film, colonne sonore e pubblicità. Ma nell’ultimo decennio l’ukulele si è visto molto in giro: Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt ci hanno fatto un video di successo; nel 2016 una ragazzina e il suo ukulele hanno fatto impazzire l’America in un talent-show; Eddie Vedder gli ha dedicato un album nel 2011, premiato con un Grammy (“Ukulele Songs”). 

Ma il successo più iconico è stato probabilmente quello dell’artista hawaiano Jake Shimabukuro: nel 2006, a poco più di 20 anni, ha pubblicato una cover di “While My Guitar Gently Weeps” di George Harrison. L’ha suonata con il suo ukulele, nel mezzo di Central Park a New York. È diventato uno dei primi video virali della storia: su YouTube è piaciuto a 17 milioni di persone, con commenti e apprezzamenti da tutto il mondo. L’esercito gentile dei fan dell’ukulele.

 

Questo articolo è frutto di sintesi e rielaborazione di notizie provenienti da diverse fonti, tra cui The AtlanticGet-Tuned, BBC