© OAB (Office of Architecture Barcelona)

La città-istantanea di Ibiza era una costruzione gonfiabile, di plastica, formata da una serie di ambienti interconnessi tra loro. Dai colori e dalla forma, poteva ricordare una tenda da circo o un gigantesco castello gonfiabile.

Ibiza all’inizio degli anni ‘70 non era l’Ibiza che conosciamo oggi, meta del turismo globale, delle compagnie low-cost e sede di feste mondane. Era un territorio prevalentemente rurale, selvaggio, in parte sottosviluppato e poco urbanizzato.

Un luogo remoto e sereno, libero dal clima di repressione e censura della Spagna franchista, che soffocava ogni espressione di diversità culturale. Fin dagli anni ’30 l’isola era diventata un rifugio mediterraneo dove esprimere la propria libertà. Il ritrovo perfetto per artisti, intellettuali e hippy.

Un gruppo di giovani in un caffè di Ibiza, 1972 (Getty Images / ullstein bild)

Nel 1971, sulla costa settentrionale di Ibiza, a Cala de Sant Miquel, fu ospitato il VII Congresso dell’ICSID (il Consiglio Internazionale delle Società di Disegno Industriale) sul design, l’architettura alternativa e le forme d’arte sperimentali. Si trattava di discipline molto in voga in quella fase, in un periodo di forte spinta controculturale in ambito accademico e sociale. 

La maggior parte degli incontri si sarebbe tenuta presso l’Hotel Cartago, l’unica struttura presente in zona. L’albergo avrebbe ospitato i delegati della conferenza, tuttavia non sarebbe stata in grado di ricevere i tantissimi giovani in arrivo per l’evento da tutto il mondo.

L’isola era un luogo remoto e sereno, libero dal clima di repressione e censura della Spagna franchista

Così a due studenti di architettura del Politecnico di Madrid, Carlos Ferrater e Fernando Bendito, venne un’idea: progettare un sistema di strutture gonfiabili ed eco-sostenibili, che rispettassero la natura e l’atmosfera del luogo, per accogliere il pubblico dell’evento. L’obiettivo dichiarato era “permettere un’esperienza collettiva attraverso cui creare una città temporanea. Una città gonfiabile che evidenziasse le contraddizioni dell’attuale design industriale”.

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Per concretizzare il progetto, gli studenti chiesero aiuto al loro professore José Miguel de Prada Poole, architetto di fama mondiale ed esperto di strutture gonfiabili. I tre iniziarono a lavorare per trasformare l’idea in realtà, disegnando forme e moduli della città-istantanea. Progettarono un manuale di istruzioni per i partecipanti, con le linee-guida per costruirsi una tenda gonfiabile in modo rapido, utilizzando teli di plastica e una pinzatrice.

In pochi giorni furono messi insieme circa quindicimila metri quadrati di polivinile (PVC), tradizionalmente impiegati in ambito militare e industriale. Vennero utilizzati un milione di punti metallici e un complesso sistema di ventilazione in grado di tenere gonfia l’enorme struttura. Tutto era stato pensato per rendere semplice l’allestimento e lo smantellamento della struttura, limitando al massimo l’impatto sull’ambiente. Il rispetto per la natura dell’isola, l’idea di non lasciare tracce permanenti, erano priorità degli organizzatori.

 

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Una città gonfiabile che evidenziasse le contraddizioni dell’attuale design industriale

All’avvio della conferenza Ferrater e Bendito, insieme allo scrittore e intellettuale Luis Racionero, invitarono tutte le scuole di architettura e design del mondo a partecipare al progetto. Arrivarono centinaia di giovani da molti paesi: insieme diedero forma, per una settimana, all’inedito esperimento di una “città istantanea”, gonfiabile e colorata. Qui c’è un video dei giorni della costruzione.

Il progetto Instant City aprì la strada ad un approccio alternativo agli spazi collettivi, sfidando i princìpi dell’architettura tradizionale, basata soprattutto su cemento e rigidità. La struttura gonfiabile pop-up creava un ambiente fluido, stimolante e creativo, in cui i ragazzi e le ragazze si confrontavano, dibattevano e creavano arte. La città-istantanea incoraggiava la libertà di espressione, favoriva azioni artistiche spontanee e sperimentali.

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Il progetto sfidava i princìpi dell’architettura tradizionale, basata soprattutto su cemento e rigidità

Nel campo adiacente all’Hotel Cartago nacquero molte installazioni: l’artista Josep Ponsatí realizzò dei palloni gonfiati simili a cuscini bianchi che fluttuavano nell’aria; Gonzalo Mezza e Antoni Muntadas portarono un tubo flessibile lungo 150 metri, chiamato Vacuflex-3, che serpeggiava sulla spiaggia e galleggiava tra le onde. Nell’euforia più totale si tennero anche dei “cerimoniali” in cui i partecipanti indossavano abiti e maschere colorate, interagendo con le installazioni temporanee e diventando parte dell’opera stessa.

La struttura gonfiabile di Ibiza era in linea con altre proposte di architettura “ribelle” di quegli anni. Gruppi come Archigram (Regno Unito), Haus-Rucker-Co (Vienna), Superstudio (Firenze) e progetti come Plug-in-City (mega-struttura senza edifici con abitazioni a forma di celle standardizzate) o The Walking City (edifici intelligenti simili a robot-insetto che vagavano per la città) rappresentano altri esempi di questa tendenza.

La struttura gonfiabile creava un ambiente fluido, stimolante e creativo, in cui ragazzi e ragazze dibattevano e creavano arte

Il professor Prada Poole, dopo l’esperimento di Ibiza, realizzò molte altre strutture deperibili. Divenne noto per le sue architetture a “bolle di sapone”. La stessa Instant City divenne un format, con repliche in diverse città, tra cui una a Stromboli.

In un articolo del 2012, la rivista Domus ha riportato la testimonianza di un’ospite della città gonfiabile nel 1971: “Dal mio angolo vedevo persone di ogni tipo: c’era un giovane che portava con sé un coniglio, un altro che suonava il il flauto con un asciugamano intorno ai fianchi e con un cappotto di pelliccia. C’era un clima speciale. Nella città-istantanea le persone erano davvero in contatto, si toccavano. Sembravano amiche”.