Ho scoperto che i gift shop che incrociamo al termine dei nostri percorsi museali, con la loro offerta di libri e gadget, contribuiscono grandemente alle entrate di musei e gallerie. Bene, viva tutto ciò che concorre alla sussistenza dei nostri amati luoghi dell’arte. Il problema, per me, è che sono tutti uguali: gli stessi coffee table books, le agendine simil-moleskine, le matite, gli apribottiglie Alessi, le shopper con le frasi inspirational. Ma se l’unicità e la creatività non vengono premiate in luoghi come i musei, dove sennò?
Il titolo del documentario “Exit Through The Gift Shop”, di Banksy, mi aveva fatto riflettere per la prima volta sulla natura di questi luoghi così particolari, in cui si incontrano e si scontrano le ragioni di arte e commercio. Quello che era iniziato alla fine dell’Ottocento, con le prime vetrine nei musei, è diventato nel corso di un secolo un fenomeno di vendita al dettaglio molto più ampio, fatto di t-shirt, cappellini, borse, portachiavi, puzzle, tazze, ombrelli e quaderni. A pensarci, esistono pochi altri posti in cui un tale mix di oggetti abbia un senso, ad eccezione dei gift shop (forse negli autogrill?).
Il punto è che l’insieme dei prodotti sembra concepito per un generico consumatore globale, appassionato di “oggetti creativi” standard. L’offerta prescinde spesso dal contesto in cui sorge il museo, così da Los Angeles a Calcutta trovi gli stessi poster, gli stessi peluche e gli stessi libri di design. È una sorta di franchisizzazione dell’esperienza gift shop. La noia, dove invece cercheresti il brivido di un’idea originale.
Gli oggetti in vendita sembrano concepiti a misura di un generico consumatore globale appassionato di oggetti creativi standard
Intendiamoci, l’importanza dei gift shop per i musei è indiscutibile. I dati che ho trovato in giro dicono che gli amministratori traggono in media dal 5% al 25% delle loro entrate dagli store. Il San Francisco Museum of Modern Art ha dichiarato di raccogliere 6 milioni di dollari dallo shop ogni anno, il 7% degli incassi totali.
I negozi rappresentano una risorsa preziosa in particolar modo per i musei più piccoli, soprattutto quando i finanziamenti pubblici scarseggiano. I dirigenti del museo Craft Contemporary di Los Angeles, ad esempio, hanno dichiarato che lo shop contribuisce con 130.000 dollari agli esigui incassi annuali (il 12%).
Gli effetti dei gift shop non sono solo economici, comunque. Influenzano direttamente il nostro rapporto con l’arte. Spesso sono gli stessi curatori delle mostre a scegliere i prodotti degli shop, selezionandoli sulla base delle mostre in programma. Se in calendario c’è un’esposizione su Frida Kahlo, diciamo, il negozietto sarà inevitabilmente inondato di poster, gadget e libri a tema Frida. Sono sempre i curatori ad aiutare i venditori ad accertarsi che le immagini siano perfette, che i colori siano giusti e che non ci siano problemi con i diritti d’autore.
E allora? E allora secondo Vox la ripetizione ossessiva delle stesse opere, stampate su moltitudini di gadget o souvenir, alla lunga influenza la nostra opinione su quali siano gli artisti e le immagini davvero importanti nell’universo dell’arte. Il sito americano parla di “effetto di esposizione”: la visione continua di un’opera d’arte migliora la nostra considerazione di quell’opera d’arte. È verosimile. Frida a me sembra importante, in effetti.
La funzione dei gift shop non è solo economica. Influenzano direttamente il nostro rapporto con l’arte
Ultimamente alcuni gift shop stanno provando a farsi venire altre idee e sfornare pezzi unici. Il MoMa di New York ha chiesto agli stilisti Pangaia e Takashi Murakami di realizzare una capsule collection con prodotti in edizione limitata. Il Museum of Contemporary Art di Chicago ha commissionato una gamma di prodotti originali al designer Virgil Abloh. Anche il Museo di Van Gogh ad Amsterdam si è dato da fare, realizzando una linea profumi a marchio proprio e delle scarpe in collaborazione con Vans. È già qualcosa.
Nel frattempo i gift shop si allargano. I grandi musei stanno aumentando la metratura dei negozi, puntando contemporaneamente sempre più sugli e-commerce. Nella comunità degli addetti ai lavori qualcuno fa polemica: “Se continuano a puntare sulle vendite, cosa distingue i musei dalle gallerie commerciali?”, ha detto in un’intervista il critico Yuha Jung dell’Università del Kentucky. “I musei devono prestare attenzione al modo in cui vengono percepiti. Se emerge un’anima troppo commerciale, non va bene”.
Tra l’altro ormai molti visitatori considerano gli store una destinazione a sé: entrano negli shop, fanno i loro acquisti e se la battono senza visitare il museo. Per chi cura le mostre può essere un po’ avvilente. James Bradburne, direttore della Pinacoteca di Brera a Milano, sostiene che sia un dato positivo tutto sommato: “Un negozio è un’espressione legittima di un museo. Spero che le persone vengano sempre di più nei nostri gift shop. Se le mostre non sono abbastanza interessanti da competere con i negozi, allora dobbiamo organizzare mostre migliori”.
“Se continuano a puntare sulle vendite, cosa distingue i musei dalle gallerie commerciali?”
È il solito conflitto tra commercio e difesa dei musei come luoghi di creatività e bellezza, innanzitutto. Eppure un compromesso potrebbe esserci: investire in prodotti che siano almeno originali, realizzati da creativi locali, selezionarli con la stessa cura e ambizione con cui si scelgono gli artisti di mostre ed esposizioni.
Una speranza arriva dall’Alaska, scopro: il Museo di Anchorage offre prodotti introvabili altrove, con un’attenzione particolare all’arte dei nativi alaskani. Le meraviglie includono occhiali da sole in avorio di tricheco, maschere tradizionali e borse di pesce Halibut. Sono un po’ cari. Ma la bellezza isn’t cheap.