La “cultura dello stupro” è un concetto usato per descrivere un contesto in cui lo stupro e la violenza sessuale sono percepiti come comuni. E in cui atteggiamenti, norme, pratiche e media prevalenti normalizzano, tollerano o addirittura perdonano la violenza sessuale.
Per decenni, i media e la pop culture hanno rappresentato uomini e donne attraverso rigidi stereotipi che abbiamo ritrovato pervasivamente in letteratura, cinema, pubblicità e riviste. Tratti come l’aggressività sessuale del maschio insieme alla compiacenza della femmina, spesso evidenziati nella cultura pop, hanno rafforzato questi stereotipi di genere e hanno portato le società a credere che alcuni comportamenti devianti siano accettabili, data la loro diffusione e normalizzazione.
La rappresentazione della mascolinità standard ci ha consegnato il maschio indipendente, dominante e in grado di controllare le proprie azioni ed emozioni. Con i media che strutturano questo tipo di pressione costante gli uomini sono spinti ad appropriarsi di comportamenti violenti e aggressivi, soprattutto quando si tratta della loro sessualità e di come si rapportano nei confronti delle donne. Non c’è spazio rappresentativo per un uomo che si prende cura, che incorpora comportamenti come la gentilezza o la premura o che si sforza di gestire un bambino senza sentirsi minacciato nella propria virilità.
Di contro, lo stereotipo femminile universale mostra le donne come mansuete, sensibili, amorevoli e orientate alle opere di cura, in particolar modo quelle famigliari. La femminilità stereotipata descrive generalmente le donne come oggetti sessuali giovani, magri e fisicamente meno forti. Le donne tendono ad essere rappresentate come casalinghe e aiutanti, martiri e vittime nei film e nei programmi televisivi, enfatizzando i loro stereotipi e mostrando ruoli passivi e dipendenti.
Lo stereotipo femminile universale mostra le donne come mansuete, sensibili, amorevoli. Orientate alle opere di cura e al contesto familiare
L’immagine culturale standard di una donna è esemplificata nella bellezza e nella lussuria passiva, naturalmente sottomessa alle volontà degli uomini, coloro che detengono ogni tipo di controllo e potere. Questo senso di passività da parte delle donne propaga la convinzione che esista una metà del cielo di minor valore. Contribuisce a dare la sensazione che lo stupro sia in qualche modo accettabile.
La pubblicità lavora per stereotipi mutuati dalle società in cui è inscritta e uno dei temi pubblicitari ricorrenti è proprio la rappresentazione coerente delle donne come oggetti del desiderio sessuale maschile. Accanto alla narrativa dello stupro si è tornato a parlare di “male gaze”, ovvero di un certo tipo di sguardo. “The gaze” è un termine che descrive il modo in cui gli spettatori interagiscono con i media visivi. Ci arriva dalla teoria e dalla critica cinematografica degli anni ’70, che invoca una certa politica sessuale dello sguardo, ovvero suggerisce un modo di rapportarsi al soggetto guardato.
Il “male gaze” posiziona la donna come mero oggetto sessuale e le dà come unico obiettivo quello di soddisfare le pulsioni e i desideri del maschio eterosessuale. Non ha sentimenti, desideri, pulsioni proprie e, se ce le ha, sono meno importanti del suo essere incorniciata dal desiderio altrui.
Il concetto di “male gaze” è stato teorizzato dalla studiosa e regista Laura Mulvey, nel suo ormai famoso “Visual Pleasure and Narrative Cinema“ che dà l’avvio alla Feminist Film Theory. La donna è spettacolo, l’uomo è portatore dello sguardo.
L’ironia di questa rappresentazione è che le stesse qualità che le donne sono incoraggiate a sviluppare per soddisfare gli ideali culturali di femminilità (bellezza, sensualità, passività e impotenza) contribuiscono alla loro vittimizzazione. Inoltre, le qualità che gli uomini sono spinti a esemplificare (aggressività, dominio, sessualità e forza) sono le stesse legate all’abuso e alla violenza.
La pubblicità attinge a mani basse da questo sistema rappresentativo: i contenuti prevalenti nei media mainstream sono in gran parte un riflesso dei valori culturali che si osservano a livello globale e che si intersecano con ideologie sulla supremazia maschile e il dominio sulle donne, sia sessualmente che di status. Stereotipi di questo genere sono comunemente visti nei film, nella musica e nelle pubblicità.
Il concetto di “male gaze” è stato teorizzato dalla studiosa e regista Laura Mulvey: la donna è spettacolo, l’uomo è portatore dello sguardo
A prescindere dal prodotto pubblicizzato, le donne appaiono spesso nude o seminude. Hanno pose invitanti, con espressioni riconducibili a quelle dell’estasi sessuale. Spesso vengono paragonate al prodotto stesso. Sui loro corpi e coi loro corpi si allude, si sessualizza, si schernisce, si depaupera di senso un intero genere.
Poiché i media (inclusi i social media) fanno parte della quotidianità delle persone, essi contribuiscono ad anestetizzare il pubblico sulla gravità di certi comportamenti o reati legittimando, di fatto, la violenza sulle donne. Una desensibilizzazione sistemica che porta, in ultimo, le vittime di abusi e violenza a non denunciare i propri aggressori.
In questo studio si esamina come la pubblicità influenzi la soggettività delle donne. I risultati mostrano tre principali categorie rappresentative: “stuzzicate”, ovvero pronte ad offrire una promessa di intimità sessuale anche in contesti violenti; “pezzi di carne”, cioè disumanizzate per esser controllate, dominate e consumate; “soggetti conquistati”, ovvero sottomesse, vulnerabili e psicologicamente alla deriva.
Comunicando che è giusto dominare, toccare e aggredire sessualmente le donne, le rappresentazioni pubblicitarie negano in sostanza il diritto di una donna a dire di no. Eliminano alla radice il tema del consenso, indebolendo e mettendo in discussione il peso sociale che quella violenza genera e comporta. I media e i social media sono corresponsabili nel diffondere la cultura dello stupro anche in nome di un certo hype agognato che nasce, cresce e si incancrenisce nella velocità di fruizione.
Insomma, nella corsa al like pare che valga tutto, compreso sfruttare le donne, i loro corpi, il loro stare al mondo dentro un sistema valoriale che normalizza la violenza e restituisce un’immagine distorta del ruolo che possono avere all’interno della società.
Qualunque sia il prodotto pubblicizzato, le donne sono spesso nude o seminude. Con espressioni riconducibili a quelle dell’estasi sessuale
Come ne usciamo?
Con un’etica della professione forte, con una disciplina pubblicitaria che vigili su se stessa e con il prendere le distanze dai marchi che ancora veicolano certi messaggi per solleticare determinati immaginari e che però ledono la dignità del 50% della popolazione mondiale.
Soprattutto, con il comprendere quale sia l’obiettivo del mestiere pubblicitario: portare valore al brand, non hype. Fuggire dalla logica del “purché se ne parli”, perché oggi parlarne male equivale a vendere peggio. E, soprattutto, con il riconoscere che il sesso non vende, o almeno non più.
Secondo una ricerca dell’Università di Padova e Trieste pubblicata a settembre 2020 le donne sono risultate meno attratte da pubblicità che mostravano corpi maschili oggettificati rispetto a quelle che non li mostravano. Per gli uomini – e forse questo è il dato più interessante – il livello di oggettificazione del corpo femminile non ha mostrato una maggiore propensione ad acquistare il prodotto, né un maggior livello di gradimento della pubblicità stessa. In alcuni casi – trasversalmente al pubblico femminile e maschile – la visione di corpi oggettificati ha creato fastidio e repulsione per il prodotto e il marchio associato.
Certo, se il sesso non vende più i team creativi dovranno fare i conti con qualcosa di ben più grande: farsi venire delle idee dove prima bastava alludere a un atto sessuale.