Omaid H. Sharifi ha trascorso sette anni a portare creatività sui muri di Kabul. Poi sono tornati i talebani. A poche settimane dalla presa della capitale, molti murales del suo gruppo sono stati cancellati, sostituiti da slogan di propaganda del regime.

Il collettivo ArtLords, fondato da Sharifi nel 2014, è composto da designer e artisti locali. Ha realizzato più di 2000 murales in ​​19 delle 34 province dell’Afghanistan. Il movimento è cresciuto fino a raggiungere una cinquantina di artisti, con uffici in sette province afgane. Il gruppo ha anche aperto una galleria d’arte, una rivista e una caffetteria. Nel luglio 2021 ha organizzato un workshop online per artisti e attivisti della società civile.

Nei 20 anni di presenza americana, le loro installazioni hanno decorato le barricate e le mura costruite per proteggere la popolazione dagli attentati terroristici. Il collettivo era nato con l’obiettivo di “promuovere la trasformazione sociale attraverso l’arte e la cultura”, come recita il manifesto ufficiale.

 
 
 
 
 
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Una delle prime installazioni del gruppo era stata “We are Watching You”, un murale con due grandi occhi su un muro bianco, una denuncia della corruzione diffusa tra le classi al potere in Afghanistan. Il testo recitava: “La corruzione non è nascosta a Dio e allo sguardo dei popoli”. Un sentimento condiviso da gran parte della popolazione locale.

Le opere di
ArtLords affrontano un’ampia serie di temi sociali. Alcune ricordano le vittime del conflitto in corso, altre promuovono messaggi sulla salute pubblica o sull’importanza dell’istruzione. Alcuni argomenti ricorrenti sono i diritti delle donne e gli obiettivi di sviluppo sostenibile in Afghanistan. I murales evocano spesso empatia o compassione, sentimenti rari in un Paese piegato da una guerra lunghissima.

 
 
 
 
 
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Il collettivo ha realizzato più di 2000 murales in ​​Afghanistan e include più di 50 artisti

Oltre a colorare spazi urbani squallidi e devastati, i lavori di ArtLords hanno avuto il merito di alimentare in qualche modo il dibattito pubblico nel Paese. A Kabul non era insolito vedere cittadini afgani in piedi davanti ai murales, a discutere tra loro. Sebbene alcune opere avevano inizialmente irritato le autorità afgane, i messaggi erano stati in seguito ben accolti dalle amministrazioni.

Qualche anno fa il governo aveva addirittura richiesto al collettivo un grande dipinto (“The Unseen Afghanistan”) da donare al Segretario Generale delle Nazioni Unite. Era nata un’opera molto colorata, che ben rappresentava il mix di etnie dell’Afghanistan. Nel novembre 2020 l’associazione era stata incaricata di dipingere murales in tutte le principali città del Paese. Prima che nelle ultime settimane ritornasse il regime talebano.

 
 
 
 
 
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Omaid H. Sharifi ha trascorso sette anni a portare creatività sui muri di Kabul. Poi sono tornati i talebani

Non c’è solo ArtLords a raccontare creativamente l’Afghanistan. L’illustratrice più nota è Shamsia Hassani: nata nel 1988 in Iran da genitori afgani rifugiati, Hassani ha iniziato a dedicarsi ai murales nel 2010, attratta dalla loro natura essenzialmente “pubblica”. Ha detto di considerarlo un buon modo per far arrivare l’arte a persone con poche possibilità di visitare una galleria o un museo. 

Per le strade ha iniziato a disegnare illustrazioni non troppo grandi, così da potersi muovere velocemente in caso di pericolo. Poi si è messa a scattare fotografie di edifici e a dipingere direttamente sulle foto istantanee, definendo la sua serie “Dreaming Graffiti”. Lavorare come donna creativa a Kabul, naturalmente, l’ha esposta a molti rischi.

 
 
 
 
 
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Il tema principale dei suoi lavori è la condizione femminile nella società locale. Hassani prova a cambiare il modo in cui vengono percepite le donne in Afghanistan. “Cerco di raffigurarle più grandi di quello che sono in realtà. E in forme moderne. Provo a mostrarle anche felici, dinamiche, più forti”, ha spiegato.

L’illustratrice gode di fama internazionale ed è molto seguita sui social. Nei giorni dell’invasione talebana ha pubblicato due post – con delle ragazze vestite di blu e alcuni simboli di speranza – che sono stati condivisi migliaia di volte su Instagram e Facebook. In seguito l’artista è sparita e nessuno sa dove si trovi oggi. Il suo manager ha detto che si è rifugiata in un luogo sicuro e segreto.

 
 
 
 
 
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La fotografa Fatimah Hossaini si esprime invece attraverso i suoi scatti. Pratica la cosiddetta “staged photography, con donne in posa per suggerire particolari narrazioni sulla loro vita quotidiana. Nei suoi ritratti ci sono figure femminili che suonano strumenti musicali, vanno in bicicletta o leggono un giornale. Attività atipiche per la popolazione femminile del Paese.

Le sue immagini sono sorprendenti e vivide, molto “pubblicitarie” e provocatorie. Hossaini prova a liberare la donna da secoli di pregiudizi e cliché. Ha dichiarato di voler restare in Afghanistan, per continuare a lavorare nel suo Paese. Ma anche per lei il futuro resta incerto.

 
 
 
 
 
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Appena rientrati a Kabul, i talebani hanno cancellato uno dei murales più iconici realizzato da ArtLords, quello sulla firma dell’accordo di Doha. E successivamente ne hanno fatti rimuovere molti altri. I membri del collettivo sono stati bollati come infedeli e hanno ricevuto minacce di morte. Il fondatore è stato costretto a fuggire all’estero, come molti concittadini e concittadine.

È come se i talebani stessero mettendo un sudario bianco sulla città”, ha detto in un’intervista telefonica dagli Emirati Arabi Uniti, riferendosi alle immagini della polizia che stendeva la vernice bianca sui murales.

Molti creativi sono stati bollati come infedeli e hanno subito minacce di morte

Sharifi è ospite di una struttura che ospita rifugiati afgani ed è molto attivo su Twitter. Dal suo account pubblica messaggi di solidarietà per i membri della sua associazione e attacchi contro i talebani. “Non resteremo mai in silenzio. Ci assicureremo che il mondo ci ascolti. Denunceremo il regime ogni giorno”.

Ha raccontato che la sua principale preoccupazione non sono gli episodi di violenza nei suoi confronti, poiché convive con questa paura già da anni. “La parte spaventosa è che non avrò più una voce. L’Afghanistan è il mio paese, la mia casa. Ed è proprio qui che viene negata la mia libertà di espressione”