Esiste un oggetto che sembra abitare questo pianeta con noi da sempre, una presenza rassicurante, immobile sui ripiani delle nostre dispense: è il cibo in scatola. Come ogni oggetto comune, non ci si interroga sulla sua nascita. E invece ha mosso popoli e creato imperi, ci ha portato nuovi gusti esotici. Ha ridefinito il concetto di merce e cambiato le abitudini di consumo, gettando le basi per il marketing moderno. Nella nostra dispensa c’è una storia lunga più di 200 anni.
Era il 1795 e Napoleone Bonaparte lanciò una gara creativa: una ricompensa economica di 12.000 franchi francesi (contati male 40.000 euro attuali) a chiunque avesse trovato un metodo sicuro e standardizzato per conservare il cibo delle sue armate. Nello stesso anno l’esercito francese era impegnato su più fronti: italiano, olandese, tedesco. Servivano risorse in modo continuativo per le truppe di terra, altri uomini trascorrevano settimane in pieno oceano con poche occasioni di rifornimento.
Nicolas Appert, un giovane chef al servizio della nobiltà, raccolse la sfida. Fece un primo tentativo di conservare il cibo dentro la cosa più facilmente reperibile e con la quale aveva più dimestichezza: le bottiglie usate per lo champagne. L’idea era di cuocere frutta e verdura direttamente nelle bottiglie, che però non sopportavano il calore e scoppiavano. Dopo anni di fallimenti, sviluppò un metodo che prevedeva la cottura graduale degli alimenti in contenitori di vetro rinforzati con filo metallico, poi chiusi con un tappo in sughero e sigillatura in ceralacca. Era il primo timido passo verso il cibo in scatola.
Nel 1795 Napoleone lanciò una gara creativa: una ricompensa a chi avesse trovato un modo per conservare il cibo delle sue armate
Solo un centinaio di anni dopo l’invenzione di Appert, Pasteur riuscì a dimostrare che i cibi deterioravano per via della presenza di microrganismi nell’aria. Prima di Pasteur, si era giunti alla conclusione che il cibo inscatolato e portato a ebollizione rimanesse buono più a lungo, ma nessuno sapeva perché.
Nei primi anni dell’800 la tecnica di Appert era stata affinata, iniziò la sperimentazione durante le lunghe escursioni in nave della marina francese. La fase di start-up stava per terminare, il cibo in scatola era pronto per essere distribuito. Solo dieci anni dopo Appert ricevette il premio promesso da Napoleone e rinunciò al brevetto pubblicando le sue scoperte nel libro “The Art of Preserving Animal and Vegetable Substances”.
L’invenzione di Appert iniziava a stuzzicare lo spirito imprenditoriale di molti. L’esigenza di conservare il cibo per lunghi periodi era condivisa da tutte le nazioni coinvolte nel conflitto militare. Nel 1810 l’ingegnere britannico Bryan Donkin raggiunse un metodo simile a quello francese per sigillare a caldo il cibo in lattine metalliche molto più sottili, leggere e infrangibili. Sembrava il futuro e in effetti lo era. A differenza di Appert, Donkin capì l’importanza di proteggersi con un brevetto e avviò la propria attività di conservificio.
Lo chef Nicolas Appert tentò di conservare il cibo dentro le bottiglie usate per lo champagne
La sfida per innovare il cibo in scatola era così accesa che inizialmente nessuno considerò più di tanto quella che oggi chiamiamo esperienza-utente. Non c’erano elementi che facilitassero l’apertura delle confezioni, si dovevano usare oggetti di fortuna: un coltello, uno scalpello, una baionetta. Mentre la lattina faceva passi da gigante, l’apriscatole era un concetto ancora lontano.
L’evoluzione del cibo in scatola andava di pari passo con la storia militare. Le scatolette erano un modo per portare in casa gusti lontani, o viceversa per portare lontano il gusto di casa. Una scatola dei ricordi, una finestra affacciata sulla cucina di famiglia. Essere in territorio nemico e poter assaporare gusti e aromi già noti doveva sembrare una vera fortuna. Ma l’invenzione era troppo grande per rimanere un privilegio delle truppe.
In Italia, nel 1857, l’appena ventenne Francesco Cirio aveva intuito le potenzialità dell’appertizzazione. Dai mercati londinesi e parigini arrivava una domanda crescente di primizie italiane fresche, che superava sempre l’offerta. Le scatole in latta permisero alla sua piccola attività familiare, nata nel cuore del Piemonte, di raggiungere in pochi anni buona parte d’Europa. Cirio fu il primo grande marchio a diffondersi trasversalmente in un’Italia appena nata, unita, oltre che dalla proclamazione ufficiale, dal consumo del pomidoro in scatola.
Cirio fu il primo grande marchio a diffondersi in un’Italia appena nata, unita dal pomidoro in scatola
Nello stesso periodo una storia analoga accadeva, su più larga scala, per il salmone dell’Alaska, prodotto che senza l’intuizione di Appert non avrebbe mai raggiunto il resto degli Stati Uniti. Nel 1883 dall’Alaska partirono verso il resto del continente più di 1.700.000 scatole. Una volta riempiti con il salmone fresco, i barattoli venivano portati a bollore; il vapore usciva attraverso un piccolo foro che veniva poi chiuso con una saldatura manuale. Scatola per scatola. Nonostante la richiesta incontenibile, la produzione rimase completamente manuale fino all’inizio del secolo scorso.
Le latte erano inizialmente prive di personalizzazione, lontane dall’essere pensate come uno spazio di comunicazione. In poco tempo le aziende iniziarono a sfruttare le confezioni per raccontare se stesse, cercando ora di raggiungere un pubblico sempre più lontano. Grazie alla stampa, la confezione si arricchiva di una componente visiva, diventando veicolo di una neonata cultura dell’immagine. Era branding, prima che s’inventasse il termine “branding”. Era il bisogno di creare fiducia nel proprio pubblico e familiarità con il prodotto, potendo arrivare ora più lontano di quanto non fosse mai successo prima.
Le prime etichette erano stampate direttamente sui fogli di metallo in cromolitografia, una tecnica complessa e costosa fatta con matrici in pietra, una per ogni colore, anche fino a 12 colori. Dopo si iniziò a stampare su carta, avvolgendo l’etichetta sulla latta preventivamente dipinta di rosso, colore che mascherava meglio la comparsa della ruggine. Si racconta che i consumatori di salmone in California erano talmente abituati ai barattoli rossi che non volevano comprarli di nessun altro colore.
Ogni produttore puntava ad essere riconoscibile facilmente e creare un rapporto di fiducia, proprio attraverso il marchio. Lettering ricercati, tecniche di stampa innovative, etichettatura e sigilli di garanzia, tutto contribuiva a rendere la confezione riconoscibile e sinonimo di bontà del prodotto. Ma più cresceva la concorrenza e più era difficile distinguersi. In un mercato di lattine tutte uguali, il produttore di carne Libby’s capì che poteva differenziarsi ripensando la forma della confezione stessa, inventandosi un profilo trapezoidale per la propria carne in gelatina, lanciata nel 1875. Il design della confezione garantiva una grande riconoscibilità, più comodità in fase di trasporto, un diverso impatto a scaffale, e spiccava nei manifesti pubblicitari.
Con l’etichetta, la confezione acquistava una componente visiva. Era branding, prima che s’inventasse il termine “branding”
Quando la riconoscibilità del marchio non fu più sufficiente, in tempi non sospetti, arrivarono anche gli influencer. Le latte d’olio esportate dall’Italia verso l’America a inizio Novecento ritraevano i nostri eroi e la nostra storia. Associati al prodotto comparivano i ritratti di Garibaldi, Mazzini, o di attori e cantanti già affermati, come Caruso.
Molti grandi brand di oggi devono la loro fortuna agli esperimenti dello chef che voleva ingannare le stagioni e accontentare la nobiltà francese. Le confezioni a lunga conservazione di Appert hanno permesso al cibo di iniziare a viaggiare e raggiungere ogni angolo del mondo. Un oggetto inosservato della nostra vita quotidiana, reso poi icona della cultura visiva pop.