Valentina Falcinelli
Ceo - Pennamontata

Brand: meno bla bla

La comunicazione di marca è spesso un parlarsi addosso. Serve della sostanza e serve ora.

(R T x Canàl)

Ormai è sotto gli occhi di tutti: sempre più marche, soprattutto sui social, provano a far parlare di sé, a farsi notare. La maggior parte delle volte, per quel che mi riguarda, tutto si limita a un mero puntarsi i riflettori addosso e sbracciare, con la speranza che arrivino i like e poter gridare alla viralità, finire in slide e stories.

I brand che scelgono la strada che si imbocca da “Via il capitale narrativo” o da “Piazza un contenuto virale”, nella stragrande maggioranza dei casi cavalcano un trend, che può riguardare uno stile comunicativo (vedi l’ironia) o un tema attuale (vedi inclusion e diversity). Lo fanno senza guardarsi dentro. Senza guardare dentro il proprio DNA di marca, il proprio tesoretto narrativo, dentro il proprio forziere di valori. 

Quando cavalcano un trend legato a uno stile comunicativo assistiamo a uno scollamento imbarazzante tra quella che dovrebbe essere l’identità verbale della marca e il risultato finale: il post o i post. 

La maggior parte delle volte tutto si limita a un mero puntarsi i riflettori addosso

Da un lato c’è una marca con una brand personality X, mettiamo il caso professionale ma non seriosa, dall’altro la stessa marca che parla nel suo PED (piano editoriale digitale) con una brand voice che starebbe bene alla brand personality Y, ironica al limite del sarcastico, ma non alla propria. Questa incoerenza comunicativa crea smarrimento nel pubblico, abituato a interfacciarsi con un brand che gli si è sempre rivolto in un certo modo e con un certo registro.

Quando cavalcano un trend assistiamo a uno scollamento tra l’identità della marca e il contenuto prodotto

Quando le marche invece provano a produrre contenuti che strizzino l’occhio a tematiche sociali, e lo fanno non tanto perché le sentono proprie ma perché sanno che i fan apprezzerebbero, allora è un proliferare di arcobaleni, melanated people, corpi non photoshoppati, pelli acneiche, muffin top, scevà, asterischi e via dicendo. Tutto buttato “tanto per”, senza una vera cultura sul e del tema. 

Per fortuna c’è chi non cavalca i trend, ma comunica valori. I propri, quelli che fanno parte del suo DNA di marca. Come ha fatto Diesel, ad esempio, nel film “Francesca”. O come fa la marca di antiodoranti naturali Nuud: nella sua comunicazione social fa grande uso di visual inclusivi, da sempre, mostrando corpi di taglie diverse, con diverse peculiarità. Peli compresi, senza vergogna e senza esaltazione.

 
 
 
 
 
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O come fitbit, che per parlare del prodotto – lo smartwatch – lo lega al tema del benessere e della “normalità” (l’attività fisica dovrebbe essere normalmente integrata nella quotidianità) e lo fa attraverso le fotografie. Sono immagini non photoshoppate, non come lo sono di solito le foto di catalogo: pelli adulte, con macchie, cicatrici e rughe. Corpi atletici oggi e corpi che lo diventeranno domani. Oppure no, ma va benissimo così.

 
 
 
 
 
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A proposito di ignoranza sui temi più attuali, come gender diversity e inclusion per esempio, Gabriella Crafa, consulente e vice-president di diversitylab.it, durante il convegno Play Copy ha detto qualcosa che non dimenticherò mai: “Quando ci si apre a questi argomenti, dobbiamo sapere di non sapere”. Sapere di non sapere, lasciarsi guidare, non prendere le cose alla leggera, non puntare al purché se ne parli. Paolo Iabichino nel merito ha detto che “Dovremmo passare dal “purché se ne parli” al “perché se ne parla?”.

Lasciarsi guidare, non prendere le cose alla leggera, non puntare al “purché se ne parli”

Questo cambio di paradigma aiuterebbe molte aziende a fare un salto quantico nelle loro comunicazioni di marca. Inizierebbero a porsi domande in grado di aiutarle a produrre contenuti azzeccati per il pubblico, ma anche di valore per la propria narrazione. E forse non ci troveremmo più di fronte a campagne con contenuti “aspirazionalmente virali”, triviali, mal pensati. 

Forse ci ritroveremmo a sorridere più spesso assieme alla marca, a riconoscerci nelle sue parole, a comprendere meglio il suo mondo, i suoi valori, la sua mission.
E, in questo mondo ideale che non smetto di sognare, forse ci troveremmo a commentare con un “grazie”. Ma che bello sarebbe?